Aleko, in prima esecuzione in forma scenica in Italia, è l’opera in un atto di Sergej Rachmaninov, su libretto di Vladimir Nemirovic-Dancenko, tratto dal poema Gli zingari di Puškin. È accostata per la prima volta a Pagliacci, il dramma in un prologo e due atti, su musica e libretto di Ruggero Leoncavallo.
L’allestimento è una nuova produzione della Fondazione Teatro Massimo e vede il debutto a Palermo della regista Silvia Paoli, che con la sua visione mette in dialogo le due vicende, accomunate dal tema della violenza sulle donne.
Composte negli stessi anni, Aleko e Pagliacci (1892), sono due opere di autori, linguaggi musicali ed estetiche diversissime. Ma si somigliano per struttura, caratteri e per i temi da cui traggono ispirazione: l’incapacità dell’uomo di accettare la libertà e l’indipendenza della donna, l’ossessione del possesso e la violenza che trascende nel femminicidio. Il dittico diventa così un unico grande discorso in cui le due opere si rispecchiano come parti di una stessa narrazione che racconta la violenza da prospettive diverse, con dinamiche e personaggi simili: un uomo tradito, una donna che vuole rifarsi una vita, e un epilogo tragico in cui l’uomo, scoperta l’infedeltà della sua compagna, piuttosto che lasciarla andare la uccide. Una violenza che riecheggia tragicamente nella società contemporanea.
“La brutalità di Canio e di Aleko sopravvive ancora nella nostra quotidianità – dice la regista Silvia Paoli – «l’uom riprende i suoi dritti, e ’l cor che sanguina vuol sangue a lavar l’onta» canta Canio nei Pagliacci. Ed è l’eco della vecchia teoria del delitto d’onore, l’idea che la donna sia proprietà dell’uomo, che la sua indipendenza sia un’onta. Il delitto d’onore in Italia è stato abolito solo nel 1981, e poco sembra essere cambiato. I dati e le cronache ce lo ricordano continuamente: le donne uccise, in Italia, nel 2025, sono più di 70 ad oggi. Per questo ho voluto che finzione e realtà si intrecciassero fin dall’inizio. Lo spettacolo si apre con 75 coltellate, un numero che potrà sembrare eccessivo o provocatorio, ma che corrisponde alle coltellate inferte a Giulia Cecchettin dal suo ex-fidanzato. Quest’azione mette lo spettatore davanti ad un fatto, una mostruosità, un eccesso che è però tristemente reale, vero. Non è possibile, oggi, parlare di femminicidio senza far riferimento alla quotidianità. Per questo avrei voluto avere in scena il numero esatto di donne uccise fino al giorno della prima, ma questo non sarà possibile vista la quantità di vittime; ci sarà una rappresentanza: ho chiesto alle lavoratrici del teatro, sarte, truccatrici, attrezziste, di arrivare in scena con un fiore da deporre sul corpo di Zemfira, donne che hanno voglia di ricordare che non possiamo guardare dall’altra parte, che ci dicono quanto questo dramma riguarda tutte e tutti noi”.